L’ambiente di lavoro, per le sue caratteristiche e per la natura degli interessi che coinvolge, è un luogo in cui facilmente si verificano danni alla salute: la prevaricazione, la persecuzione psicologica, lo stress cui sono sottoposti i lavoratori conducono spesso alla mortificazione morale e all’ emarginazione, al dolore e alla sofferenza, con effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico e della personalità. Si calcola che in Italia il fenomeno del mobbing coinvolga direttamente oltreun milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati. Nonostante questo la stragrande parte delle cause promosse dal lavoratore non hanno la fine aspettata: le domande sono respinte perché, si dice, il lavoratore aveva l’onere di fornire molte prove che non ha fornito (almeno sei mesi di comportamenti con carattere persecutorio, almeno un’azione vessatoria a settimana, l’intento datoriale di vessare la vittima e costringerla alle dimissioni).  La Corte di Cassazione negli ultimi anni pare aver compreso il problema, con un orientamento che si sta felicemente consolidando e che si occupa del diverso fenomeno dello straining (Cass. n. 3977/2018; Cass. n. 3971/2018; Cass. n. 3871/2018). Secondo la Corte, la definizione di mobbing e le sue caratteristiche (la cui prova veniva posta a carico del lavoratore) non sono contenute all’interno di una norma di legge, ma provengono dalla medicina legale. Se non esiste una norma che descriva il mobbing, allora è difficile pretendere dal lavoratore la prova di un fenomeno che il Legislatore non ha descritto. Le domande risarcitorie potranno essere accolte se risulteranno rispettose dell’unica norma che viene in rilievo, la quale, ricordano i Giudici, è l’art. 2087 cod. civ., che “resta pur sempre la norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro”, con la conseguenza che “il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene (c.d. Straining)”. La responsabilità del datore di lavoro e l’obbligo risarcitorio sorgono dunque ogniqualvolta l’evento dannoso subito dal lavoratore possa essere ricondotto, con adeguato nesso di causalità, al comportamento colposo del datore di lavoro, all’ inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali, al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede.

Corrado Marvasi – Esperto in diritto di famiglia, responsabilità civile e diritto del lavoro.