Nell’analisi operativa legata ad un piano di welfare aziendale, spesso si fa strada la possibilità o l’opportunità di sostituire trattamenti già in corso verso i lavoratori, anche individualmente, con benefit o vantaggi di welfare, con il conseguente timore di possibili future contestazioni da parte degli Enti previdenziali o fiscali, vista la perdita di imponibile che ne deriva. A volte questi trattamenti sono stati elargiti a macchia di leopardo o a livello individuale verso alcuni lavoratori e, pertanto, diventa più difficile disegnare un sistema di trattamento complessivo comprendente anche le poste e gli interventi di welfare che, dovendosi estendere a una generalità di lavoratori, finirebbe per essere sbilanciato a favore dei lavoratori già remunerati (o a sfavore degli altri). Ovviamente non stiamo qui parlando di soluzioni contra legem, ma di assetti formalmente corretti in cui, tuttavia, si realizza il predetto risparmio fiscale. È forte il timore in molti operatori che, in tal caso, possa essere contestata un’elusione d’imposta o contributiva: l’estrema convenienza del welfare aziendale sotto il profilo fisco-previdenziale, sia per la parte lavoratore che per quella datoriale (la tipica soluzione “win-win”, affrontata in qualsiasi discorso sul welfare aziendale), spinge verso la preferenza a utilizzare le poste di quest’ultimo, e quindi a cercare di “ribattezzare” trattamenti che, essendo meramente retributivi, di tale esenzione non godevano. C’è infatti chi è dubbioso nell’assistere a operazioni in qualche caso esperite come propedeutiche all’accesso al welfare aziendale, quali: riduzione del superminimo individuale, rinuncia a premi dati con cadenza periodica (tipo “premio ferie”), elementi di welfare premiale in sostituzione di elementi variabili di retribuzione. In pratica, ad esempio, alcuni dipendenti accettano di ridurre il proprio superminimo individuale, in forza dell’accesso, per loro e per altri lavoratori, al sistema di welfare ideato o contrattato dall’azienda oppure le parti decidono di sostituire un premio periodico ricorrente con una prestazione di beni/servizi di welfare (e pertanto esenti) o ancora sostituiscono un premio presenza giornaliero in denaro con un ticket-pasto. Il timore verso queste operazioni è sempre lo stesso: potranno il fisco o l’Ente previdenziale rinunciare ai conferimenti che venivano dalla precedente imponibilità delle poste retributive ora sostituite? In via preliminare, qualora queste percezioni si configurino come diritto quesito, ovvero siano somme entrate nella disponibilità e aspettativa del lavoratore, vi si potrà abdicare solo in conseguenza di un accordo di rinuncia concluso con ciascun lavoratore, e non attraverso eventuali accordi collettivi, sempre che non discendessero da contrattazioni collettive e non da libera elargizione del datore o da accordi individuali. Per sgomberare ogni dubbio, sebbene la rinuncia del lavoratore sia un diritto immediatamente disponibile che non deve necessariamente sottostare a ratifica in sedi protette, potrebbe apparire comunque opportuno concludere l’accordo in tali sedi, al fine di un’ulteriore certificazione della libera volontà abdicativa del lavoratore: sebbene la finalità di tali atti fosse esplicitamente dichiarata a favore del welfare, non pare dimostrabile da un eventuale ispettore la natura artificiosa e meramente strumentale – anzi irragionevole sotto un profilo organizzativo ed economico – di tali atti. Qualora, invece, tali percezioni non si configurino come un diritto quesito, non si porrà il problema di una loro eventuale sostituzione, in senso più favorevole anche sotto il profilo fisco-previdenziale: ben potrà, infatti, il datore che abitualmente erogava in determinate occasioni regalie monetarie di varia natura in modo del tutto volontario e occasionale (quantomeno nella diversificazione di tempi e quantità erogate) sostituire tali emolumenti con sistemi di welfare o benefit esenti, evitando, invece, (sempre, di regola, ma a maggior ragione quando vi siano stati meccanismi di scambio retribuzione-welfare) quelli relativi a un’immediata “monetizzazione” del welfare, come il prevedere erogazioni di natura economica in sostituzione del welfare non fruito o rimborsi dove non consentiti oppure una personalizzazione esasperata del welfare premiale, che porti a un’eccessiva individualizzazione, tale da far corrispondere nei fatti a una posta non più collettiva ma di carattere prettamente individuale, oppure il prevedere la sostituzione di elementi previsti da legge o contrattazione collettiva (ad esempio straordinari o indennità turni o maggiorazioni similari, retribuiti in via forfettaria con beni/servizi) con sistemi di welfare. In sintesi si dovrebbe dare al welfare ciò che è del welfare, cioè un mix di soluzioni il cui scopo è il miglioramento del senso di appartenenza all’azienda e di fidelizzazione dei lavoratori: attraverso, ad esempio, un’analisi di clima, di motivazione e di necessità o bisogni dei lavoratori, meglio ancora poi se le soluzioni adottate non si limitino a una mera elargizione di beni, ma comprendano anche aspetti di natura non immediatamente materiale, quali formazione, sicurezza, conciliazione vita-lavoro, etc..
Corrado Marvasi – Esperto in diritto di famiglia, responsabilità civile e diritto del lavoro.